Ariano Irpino - Rostro 1956

Vai ai contenuti

Menu principale:

ARIANO IRPINO
(ovvero)
UNA VACANZA CON BALLO E ANGURIA A GOGÒ.
Il Ferragosto del 1957 si stava avvicinando rapidamente e noi, sopravvissuti alla nostra prima sessione estiva d’esami, ci stavamo impegnando a tempo pieno nell’attività di volo sul Macchi 416 per la conquista del nostro primo brevetto di volo.
Ci alzavamo perciò ogni giorno mezz’ora prima dell’orario di sveglia normale per raggiungere di buon mattino il campo di Pomigliano D’Arco, sede della Scuola di Volo della nostra Casa Madre, e ci davamo da fare per superare questa importante prova.

Se guardiamo le foto dell’epoca, si nota che sulle nostre divise non ostentavamo ancora   l’ambitissima aquila dorata di Pilota d’Aeroplano e, quindi, che non eravamo affatto sicuri di riuscire a portare da soli il Macchino sulle accaldate vie del cielo della Campania Felix.
A questa incertezza, per molti si aggiungeva l’ulteriore impegno dello studio obbligatorio, necessario a far loro colmare entro settembre le lacune degli esami non superati in prima sessione.
Sicché, un po’ per Il caldo nisidiano umido e appiccicoso che non ci dava tregua neppure di notte, un po’ per le sfide ancora in atto, avevamo tutte le giustificazioni per sentirci stressati.
Fu così che il Comando Accademia, forse consapevole di averci concesso una licenza estiva troppo breve, pensò bene di regalarci una tregua proprio a cavallo del Ferragosto, portandoci per quattro giorni a rinfrescarci in altura, nel confortevole Hotel Giorgione di Ariano Irpino.

Lì per lì non eravamo granché contenti. Avremmo preferito stare qualche giorno in più a casa o, a quel punto, dare continuità ai nostri impegni tuttora pendenti.
Ma non avevamo voce in capitolo e la vigilia di Ferragosto salimmo obbedienti sui nostri pullman A.M. e ci avviammo di conserva brontolando, carichi di mille raccomandazioni sulle norme di contegno, verso tale ridente località.
Da bravi ragazzi, durante il viaggio ci predisponemmo al meglio a questa specie di esordio in società.
Per esempio, er Paraqu maggiore aveva messo in valigia il magico ricostituente ricco di vitamine e di sali minerali che si era portato da casa, convinto che ad Ariano avrebbe sicuramente trovato la donna a cui nessun uomo avrebbe detto di no, men che meno lui, bello, biondo e di accento romanesco.
Chissà cosa avrebbe potuto fare se avesse avuto la sua rombante Bugatti!
Il Paraqu minore, invece, era convinto di poter fare comunque una strage di bellezze irpine senza ricorrere al Meritene, ma solo in virtù del suo forte bicipite con cui le avrebbe strette a sé, unito al fascino della sua patente automobilistica di 2°Grado e alla sua predisposizione a trovare le ragazze giuste col pendolino del rabdomante.  
Il Bertomino, invece, era perplesso e scuoteva il suo capoccione col quale toglieva la visuale ad almeno due dei finestroni del pullman. Da autentico esperto di località montane relativamente isolate come la caotica Monno della sua val Brembana, pensava che col suo eloquio camuno avrebbe fatto fatica a corrispondere in tempi brevi con qualche ragazza del luogo. Avrebbe infatti dovuto affrontare ex novo l’esperienza negativa da lui fatta con le prime lezioni dei nostri docenti partenopei anche per conversare, magari a gesti, con qualche eventuale dama d’altura, ancorché munita di ogni buona volontà.
E poi, non era detto che, sul più bello e a causa di qualche fraintendimento, questa dama non avanzasse con delle pretese, puntandogli alla tempia una pistola… col dito già pronto sul grilletto.
Ma per quel suo capoccione ci sarebbe in ogni caso voluto almeno un proiettile da 105/22.
Il Bacillo, invece, andava più fiducioso verso l’ignoto, avendo con sé una grande scorta delle pomate o delle tisane preparate dai suoi amici frati dell’Umbria, rimedi che utilizzava per curare tutte le malattie, tra le quali alcune alterazioni cromatiche sulla pelle del suo collo. Non avendo mai utilizzato la farmacopea napoletana, non avrebbe voluto a maggior ragione correre il rischio di vedersi propinare da qualche speziale arianese le pozioni di matrice sannitica, arretrate a seguito dell’embargo imposto da Roma a tutta la zona dopo l’affronto subito quando le sue legioni dovettero passare sotto le note forche caudine.
E ancora adesso da quelle parti molti problemi di questo genere non si sono superati.
Il Gonio per contro, sembrava assai più inquieto. L’insegnante di navigazione, ad una sua precisa domanda, gli aveva assicurato che in altura le emissioni (soprattutto le più infelici) di carattere fonetico seguivano all’incirca le stesse leggi di quelle elettromagnetiche. In montagna, cioè, si sarebbero propagate con maggiore facilità. Per cui non sapeva come fare per non essere continuamente intercettato da ascolti ostili, che si manifestavano con lui e col suo seguito di simpatizzanti con estemporanei e fastidiosi ti-ti-ti.
I tre ineffabili del Sinedrio, come al solito, stavano guardando sfilare i campi di pomodori e i boschi di castani lungo la strada, senza far trapelare alcuna emozione.
Kociss, in realtà aveva già in piena virulenza una cotta molisana e non aveva al momento altre mire per la testa, Spalla di Vetro continuava a persistere nella fissa per i Cant-Zeta di Bracciano e di Ariano Irpino se ne strabatteva e, infine, Amos, seduto vicino al Franchin, uomo costui di molti fatti e di poche parole, andava meditando in segreto su un modo idoneo a farci superare le prove scritte a sorpresa senza venire continuamente puniti di consegna, modo sfociato in breve nell’ingegnoso sistema S.R.C.T., del quale si danno dettagli in un altro capitolo del sito del Rostro.
Kramento e Dente de Fero parevano anch’essi rassegnati all’idea di andare in vacanza in Irpinia, nonostante il primo fosse scontroso e tetragono ad ogni genere di minuetti cerimoniali, ed il secondo si trovasse già sull’orlo del precipizio matrimoniale, da lui in seguito scampato per miracolo. Ma egli, mentre o pullmànn stava salendo i tornanti per arrivare all’hotel d’arrivo, ancora non ci contava e stava col pensiero alla Città di Giulietta.
Aggiungiamo qualche altra annotazione da lasciare ai posteri.
Il Clep, dopo aver girovagato per tutto il tempo lungo il corridoio centrale del mezzo, prendendo o posando dappertutto, per distrazione’ alcuni berretti estivi foderati di lino bianco appartenenti ad altri colleghi, trovò miracolosamente il suo copricapo, verosimilmente da lui stesso abbandonato sul vano del bagaglio a mano di Quasimodo, tre ordini di sedili più avanti del suo,  solo alla fine del viaggio.
Fu fortunato in quanto Quasimodo, prima di scendere dal mezzo, aveva provato a metterselo senza riuscirci, possedendo anche lui una capoccia di stazza bertominiana, e dovette quindi ripiegare sull’altro presente nella retina, inequivocabilmente suo perché largo come un eliporto.
Così, per trovare il berretto di Clep non fu necessario fare una verifica dei numeri di matricola impressi sulle fodere di quelli di mezzo corso, essendo i suo riemerso per semplice parità numerica tra teste e copricapi.
Il Mosh e il Mirko erano sereni perché già strettamente invaghiti ad oltranza. In vacanza avrebbero evitato di battere chiodo per legittima suspicione, sapendo che le pentole del diavolo sono senza coperchi, e, quanto al  Cheese, la sera prima si era dichiarato pronto a rinunciare per 4 giorni al parmigiano reggiano che a Nisida requisiva facilmente dai tavoli della mensa allievi, sostituendolo obtorto collo con altro prodotto caseario di fabbricazione non padana.
Sacrificio necessario da parte sua, pur di potersi alzare per qualche giorno ad un orario decente.
Infine il Vate, chiamato ironicamente così perché aveva già composto la sua opera prima, una parodia dell’Inferno dantesco applicato ai Corsi regolari dell’Accademia, durante tutto il viaggio e per ingannare la noia si era dedicato a scrivere l’ultimo atto della Manfrineide, una tragedia di gusto ellenistico che raccontava la tragedia vera di una nostra manfrina andata a finire a schifìo per colpa di un Fato avverso. Tale manoscritto si è fortunatamente perduto in occasione degli scalmanati baccanali indetti in occasione del Mak P 100 del Rostro, nella primavera del 1959.
Realizzò anche altre opere, tra le quali una storia semiseria del Rostro che, esente da ogni aspirazione letteraria, conserva comunque il valore di testimonianza sul periodo più duro della nostra formazione di Ufficiali Piloti.
Ecco una panoramica sull’assetto mentale con cui ci accingemmo a godere una breve interruzione della nostra severissima quotidianità.
Ma appena scesi dal pullman, fummo sorpresi di vedere una piazza centrale affollata di persone che ci aspettavano ed i muri delle case decorati da file di manifesti con riquadri tricolori che davano il benvenuto della cittadinanza agli Aquilotti dell’Accademia Aeronautica.
Scoprimmo cosi che la sera stessa, sulle ventilate terrazze dell’Hotel che ci ospitava, si sarebbe svolta una festa danzante in nostro onore, alla quale era invitata ad intervenire la meglio gioventù femminile indigena, con o senza genitori.
Non si sa mai cosa può succedere se due pullman di giovani vanno in giro in una piccola città.
Nell’atrio, vedemmo di sfuggita le facce di Spring e del Collaudatore, che a caccia di ragazze di solito andavano in coppia tattica, aprirsi in un radioso sorriso.
Contrariamente ad ogni previsione, quella di Ariano fu una vacanza allegra, divertente e senza particolari limiti di orario giornaliero da rispettare.
Scoprimmo anche che la simpatia e la gentilezza della gente nei nostri confronti andava oltre la città di Napoli, e che anche la cittadinanza di Ariano Irpino ci amava e ci ammirava in modo incondizionato.
Avvennero anche i segnali di un piccolo cambiamento nel comportamento dei nostri severi ufficiali di inquadramento con noi pinguini, ormai in procinto di mettere le ali. Erano scesi dall’Olimpo sul quale li avevamo collocati rivelandosi perfino simpatici e disposti a chiacchierare con noi ed a raccontarci la loro esperienza nei reparti operativi fino a tarda notte, quando tutti i locali si erano chiusi e la frescura ci ristorava.
Col più arcigno di loro condividemmo perfino una spanciata notturna di anguria “colta nel nostro spazio aereo”. Dopo la cattura secondo le norme ICAO, la consumammo all’aria aperta, senza l’ausilio di posate, stando e a gambe larghe sul marciapiede per non macchiare le nostre candide uniformi estive.
Forse il regalo di Ariano lo dovemmo al nostro Generale Comandante dell’Accademia, che ci aveva in simpatia.
E fu un’iniziativa felice.   


 
Copyright 2016. All rights reserved.
Torna ai contenuti | Torna al menu