Esercitazioni navali - Rostro 1956

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Tutti al mare
 
 
            Come nell’acqua sfriggola rovente
            il ferro che l’artier tosto ha forgiato
            onde si tempri assai più duramente….
                (Inferno nisidiano - Canto II°)  
 
 
Se non fossero state le sei della mattina, ce lo saremmo potuto anche godere quel panorama che si presentava a noi dalle ampie vetrate della zona lavabo della palazzina allievi quando, cacciati da sotto le coperte dal suono improvviso della sveglia, ci affrettavamo a compiere le nostre consuete pratiche mattutine in modo da non essere in ritardo, sbarbati e spazzolati, alla prima adunata della giornata.
 
Invece, in genere a quell’ora nessuno aveva voglia di parlare, né tanto meno di apprezzare il profilo della mitica costiera che si stagliava, oltre il faro di Nisida, sullo sfondo di un cielo in procinto di rischiararsi.
 
Con il repentino passaggio dal sonno alla realtà l’umore, comprensibilmente, non era dei migliori e i nostri pensieri non andavano certo all’Eneide e ai suoi eroi. Guardando distrattamente fuori mentre i rasoi elettrici Sunbean scorrevano ronzando sulle nostre barbe, vedemmo ancorata, proprio di fronte al molo dell’Illva di Bagnoli (la grossa acciaieria che a quel tempo era ancora attiva) la nera nave da carico che riforniva periodicamente di minerali tale complesso industriale, nave che ostentava a lettere bianche sulla fiancata il nome della Compagnia: Sidarma.
 

Fin dai primi giorni trascorsi a Nisida avevamo attribuito a questa nave di colore corvino, che appariva e spariva rapidamente, la capacità di preannunciare sventure. Chissà perché! Magari era successo che qualcuno, proprio nel giorno in cui la nave era all’ancora nella baia, fosse stato punito e, scherzando, avesse per primo attribuito la responsabilità dell’accaduto ad un fattore a lui esterno, identificato in quella nave un po’ funerea casualmente apparsa in quel giorno per lui sfortunato. Poi noi, come al solito, avevamo a nostra volta trasformato in un gioco collettivo questa idea un po’ balzana.
Si dava il caso che proprio quel mattino, nel quadro del programma di arte militare navale, avremmo dovuto imbarcarci su tre corvette della Marina Militare, la Pomona, la Flora ed il Cormorano, in vista di quello che oggi si direbbe un “on the Job training”, cioè una uscita in mare per un’esercitazione dimostrativa di tiro navale, di caccia antisommergibile e di difesa contraerea.
Quanto ho premesso spiega perché quel mattino, constatata la presenza della nave iettatrice, fu dato a quanti sembravano ancora dormire in piedi il solito segnale d’allerta:
“Attenti alla Sidarmaaaaa!”
Al che tutti procedemmo, secondo le rispettive tradizioni, a compiere i rituali del caso, in ciò facilitati dalla circostanza di essere ancora in mutande ed accompagnando le grattate scaramantiche con una delle espressioni come accidenti, sorbole, mannaggia, li m….cci e mizzica, per includere solo quelle tipiche di alcune regioni d’Italia.
Con la iella non si sa mai, ammoniva giustamente il commediografo e attore De Filippo nella commedia “Non è vero, ma ci credo”.     
Sul piazzale, ci attendevano tre dei nostri ufficiali d’inquadramento che ci avrebbero accompagnato, uno in ciascuna delle tre corvette, nella sortita in mare, anch’essi con in volto un’espressione non certo entusiastica. Forse, al pari di noi, non erano affatto affascinati dall’idea di fare anche solo per un giorno i marinai, tant’è vero che, a tempo debito, avevano preferito optare per l’Aeronautica. O forse, pur potendo quell’occasione essere in teoria perfino piacevole, sarebbe stato un vero eroismo cominciare a considerarla tale alle sei del mattino.
Il più anziano dei tre, un tipo affilato, sospettoso e con il viso sempre pallido e tirato, non sembrava fiducioso del nostro comportamento a bordo di una nave militare, dove tutti si chiamavano signori e le norme di tratto escludevano l’uso di un linguaggio… colorito, per noi invece abbastanza normale.
Pertanto, prima che alcuni mezzi a motore della sezione velica ci trasbordassero a turno sulle tre corvette già in attesa nella baia, sentì il dovere di farci alcune raccomandazioni, che in sintesi mettevano in evidenza i seguenti punti:
Primo: i marinai sono dei gentiluomini, al contrario di noi aviatori, adusi alla pugna e al gozzoviglio (volendo qui usare le stesse parole dette da Gassman, qualche lustro dopo, per descrivere i suoi scherani dell’“Armata Brancaleone”).
Secondo: salendo a bordo di una nave militare, prima di tutto si saluta la Bandiera di guerra, che sta a poppa.
Terzo: la poppa è la parte della nave diametralmente opposta alla prua, e quest’ultima a sua volta è quella dove non ci stanno le eliche.
Quarto ed ultimo: che badassimo bene a come ci saremmo comportati a bordo perché, se mai ci avesse sentito pronunciare, Dio non lo volesse, uno dei nostri frequenti “vaffa”, o anche solo un termine relativamente più leggero come cretino, ci avrebbe fatto dormire sui tavolacci delle celle un numero di notti più che sufficiente a farci depilare definitivamente la schiena.
E con questo viatico, ci imbarcammo sui mezzi a motore, pronti a vivere un’esperienza navale che ci avrebbe sicuramente temprato nel corpo e nello spirito.
Arrivammo sottobordo alla nostra corvetta. Alcuni colleghi ed io, preceduti dal nostro ufficiale cultore dell’eloquio forbito, salimmo pimpanti in fila indiana la stretta scaletta calata da bordo fino a noi, mentre una serie di fischi prolungati dava l’allarme, o forse il benvenuto.
Quand’ecco, tra un fischio e l’altro, sentimmo improvvisamente echeggiare una sequela di parolacce ed imprecazioni. Chi mai osava squalificarsi così in uno dei salotti buoni della nostra Arma sorella?
L’autore di queste giaculatorie sconosciute ai gentiluomini di mare era proprio il nostro tenente il quale, girandosi di scatto dopo il saluto alla Bandiera esposta a poppa, aveva urtato violentemente qualcosa di metallico messo a mezz’aria dalla parte opposta a quella delle eliche, producendosi un vero e proprio bernoccolo navale.
Il buon giorno si vede distintamente fin dal mattino, al contrario dei subdoli ostacoli di bordo!
Ad ogni modo, levate le ancore e salpate le veloci prore, e pure la poppe, non erano ancora le nove del mattino quando le tre unità, senza altri incidenti, navigavano in linea nelle acque delle isole del golfo di Napoli alla fantastica velocità di otto nodi, per essere in orario e sul punto in mare “concordato” con l’Aeronautica per l’attacco “a sorpresa” che sarebbe stato effettuato da una coppia di F-86 della Quarta Aerobrigata.
Le corvette, pur essendo arrivate puntuali, nondimeno restarono veramente sorprese dall’attacco perché, mentre un ufficiale davanti allo schermo radar stava dicendo ad un gruppo di noi che ben difficilmente gli attaccanti sarebbero sfuggiti alla loro attenta ricerca a 360 gradi, il rombo prodotto da due aviogetti volanti sul pelo dell’acqua a tutta manetta lacerò l’aria. Prima ancora che la sirena d’allarme aereo finisse di suonare ed i marinai raggiungessero i loro posti di combattimento, i “nostri” eroi avevano già fatto una stretta inversione per un secondo attacco, l’unico che qualsiasi osservatore neutrale di una manovra a partiti contrapposti avrebbe riconosciuto essere stato non affatto a sorpresa, dato che la nave stava per reagire alla minaccia.
Un’altra sorpresa comunque ci fu, anche se non aerea, quando i marinai, nel togliere in tutta fretta i teloni di copertura della contraerea per simulare la fiera reazione della nave, trovarono acquattati sotto di essi un paio dei nostri che, tra il lusco ed il brusco, pensavano d’aver trovato un posto sicuro per recuperare il sonno perduto la sera prima al teatro San Carlo, dove erano stati costretti a più di tre ore di Wagner e di Nibelunghi in tedesco antico.
Che diamine, in tempo di pace le armi non dovrebbero essere usate!
Chiuso l’incidente aeronavale, ci apprestammo ad assistere al tiro contro un bersaglio, materializzato da una apposita sagoma trainata con un lungo cavo da una piccola unità che si apprestava a passare ad una certa distanza dalle nostre navi e su rotta opposta e parallela.
Per farla breve, dopo accurati rilevamenti dei dati di distanza e di velocità relativa, fu aperto il fuoco. Una prima salva fu tenuta volutamente corta, ed una seconda altrettanto volutamente più lunga, in modo da “fare forcella”. La terza salva risultò decisiva e un colpo maestro centrò in pieno…. il cavo di traino e lasciò il bersaglio dondolare inerme, come la Bismark senza timone alla mercè degli incrociatori inglesi.
L’esercitazione di tiro fu sospesa con gran sollievo della piccola unità trainante che, con segnali morse luminosi e sventolio di bandierine di segnalazione, giustamente protestava per un colpo anomalo esploso in acqua poco avanti… alla sua prua, che anche per una piccola unità sarebbe sempre quella parte della nave opposta a quella delle eliche, quella cioè ancora più opposta al bersaglio da colpire.
Scusate se mi ripeto, ma non vorrei creare difficoltà a qualche lettore non esperto come noi di termini marinareschi.
A questo punto, prima di rientrare alla nostra Itaca dopo tante peregrinazioni, non restava che assistere alla esercitazione di caccia Antisom, necessariamente simulata dato che nessuno dei nostri sommergibili era potuto uscire in mare per tale dimostrazione. E chi lo avrebbe potuto biasimare, visto come era andata con i tiri navali, se non lo avesse fatto per timore di essere affondato davvero?
Tuttavia i nostri amici marinai, avendo colto nettamente la nostra grande delusione, pensarono bene di integrare l’esercitazione “in bianco” con il lancio finale di una vera bomba di profondità, evento assai più eccezionale di quello di un sommergibile che emerge dopo essere stato individuato dal Sonar.
In attesa che le alte sfere navali, interpellate dalla corvetta per l’autorizzazione necessaria, si esprimessero, un ufficiale di bordo, munito di manuali e regoli, si mise a calcolare la velocità ottimale della nave a fronte della potenza esplosiva della bomba, la profondità di innesco dell’ordigno ed altri parametri di riferimento, concludendo soddisfatto che la velocità di dodici nodi, prossima alla massima compatibile con la vetustà della nave, nonché uno sgancio a poppavia (che ormai tutti sanno dov’è e che era felicemente salpata contestualmente alla veloce prora) sarebbero stati ideali per evitare danni alla stessa corvetta. E noi, se ci fossimo ancorati fortemente ad una opportuna sovrastruttura della nave, parimenti ci saremmo salvaguardati dagli inevitabili scossoni provocati dall’esplosione sottomarina.
Ma forse, più che per noi, l’addetto alle armi lo disse per il nostro tenente, suscettibile di farsi, prima dello sbarco, anche un bernoccolo di tipo antisom.
L’auspicata autorizzazione al lancio dell’ordigno finalmente arrivò, come pure arrivò in sala macchine l’ordine di procedere a tutta forza. E la nave, vibrando e gemendo, cominciò la rincorsa per agguantare la velocità ottimale calcolata dall’ufficiale alla manovra.
Passarono vari minuti ed una voce disse che stavamo andando a 10 nodi, che diventarono undici dopo lunghi minuti, mentre il nostro fumaiolo vomitava all’esterno un fumo denso e sempre più scuro.
Ai famosi 12 nodi, la bomba rotolò pigramente fuori bordo e si inabissò con un tonfo, mentre qualcuno faceva il “count down” dei secondi all’esplosione. Ma al secondo zero la bomba non esplose, né lo fece dopo una ulteriore attesa. Forse l’ordigno riposa tuttora, felicemente in pace, in acque amiche. Ciò che invece esplose fu qualcosa all’interno del fumaiolo, che prese a bruciare con alte fiammate. Qualcuno di noi si disse convinto che la causa fosse da imputare al malaugurio lanciato dall’equipaggio del traino bersaglio per lo sgarbo patito con il colpo davanti alla sua prua.
Signori sì, i marinai, ma non fategli scherzi!
Le macchine furono fermate e gli uomini si affannarono a spegnere l’incendio, incitati  dalla sirena di bordo che, per fortuna, non s’era ancora inceppata nonostante in quella giornata memorabile fosse stata impiegata a iosa.
Sicché, in un assolato pomeriggio ed al cospetto di un panorama marittimo fra i più decantati in giro per il mondo, aspettammo fiduciosi e prua al vento l’arrivo del rimorchiatore che ci avrebbe trainati in porto.
Con la Sidarma ancorata a Bagnoli, quel giorno potemmo dirci fortunati, perché nessuno ci silurò.        


 
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